Quando si parla di Francia equivale a spalancare un mondo, la cui complessità è raccolta in una letteratura sterminata, pertanto me ne starò un passo indietro, fuori, di lato, limitandomi a quanto ho potuto documentare giorno per giorno in itinere. Con Edo, mio compagno di viaggio, dopo aver oltrepassato l’Alsazia, terra di mezzo dove chevre e spätzle convivono, lambiamo la Champagne fino ai manti verdeoro delle Fiandre. Il vento belga spira anche in cucina. Dalle numerose fattorie tra Lille e Arras arrivano le carni per comporre potjevleesch (terrina di bollito in gelatina) e stufato di manzo alla fiamminga, arricchito spesso di zenzero, nonché le immancabili frites (patate fritte) che qui assurgono a contorno gourmet.
Basta osservare la Normandia per intuire la natura eclettica della sua gastronomia. Tra Cap Blanc e Cap Gris Nez, dai quali la Gran Bretagna si può quasi sfiorare, pecore e bovini pascolano, circondati da grano turco e residuati bellici, mentre sotto le scogliere foche inglesi vengono a giocare.
Alla stessa tavola incontriamo rillette di pesce (una specie di mousse aromatizzata in vari modi) e anatra, dos de cabillaud (cuore di merluzzo) e entrecote. Una costante è il gateau au chocolat, sempre fait maison (fatto in casa), così come la maionese, nelle sue molteplici declinazioni: agrumata con cibi di mare, alla cipolla o al curry con le carni.
Abbinata a queste ultime è frequente pure la sauce au poivre (salsa al pepe), a base di burro, ingrediente prediletto in luogo dell’olio d’oliva. Il paesaggio è punteggiato di meli, essenziali alla distillazione del Calvados, riguardo alla quale veniamo edotti durante la visita alla maison Christian Drouin, nella zona di Pont l’Éveque.
Località questa che dà il nome a un pregiato formaggio, simile -non me ne vogliano- al più noto Camembert e ideale ripieno per croustillant (fagottini di crespella croccante al forno) davvero sfiziosi. Benché originaria di Troyes, l’andouillette (salsiccia, da notare l’assonanza con ‘nduja) figura puntualmente nei menù di campagna, insieme a sardine e -perché no?- ostriche. A pranzo una galette (crêpe salata di grano saraceno) ripiena in mille fogge, seduti o d’asporto diventa passaggio obbligato.
All’ingresso in Bretagna, sebbene la compresenza di terra e mare prosegua, propendiamo decisamente per il secondo. Una passeggiata sul pelo dell’oceano nell’estremo più selvaggio, Cap de la Hague, e quella scultura di sale che è la baia di Cancale in secca al tramonto, ci rendono partecipi dell’universo acquatico.
Bancali infiniti di pesci d’ogni sorta e crostacei e molluschi, poi assemblati in bella posa sopra sontuosi plateau, riempiono gli occhi. Huitres (ostriche), crevettes (gamberi), homard (aragosta), moules (cozze) sono i termini che tappezzano qualsiasi centro costiero. Consiglio i frutti di mare crudi perfino a chi -come la sottoscritta- in generale ne diffida, poiché regalano un’esperienza sensoriale unica. Quanto alle cotture si predilige la plancha oppure la soluzione a noi poco famigliare di rosolare i tranci di pesce nel burro. La soupe de poisson è entree molto gettonata. Ben lungi dalla comune idea di zuppa di pesce, si avvicina piuttosto a una sapida vellutata e viene servita con un corredo di crostini, formaggio grattuggiato e maionese artigianale. Piantagioni di chou (cavolo) in molteplici varietà finiscono nelle ricette bretoni come contorni, unitamente a zucchine, carote, baccelli, riso, oppure ascendono a ingrediente principale in preparazioni quali il choucrute de la mer, che al crauto abbina prelibatezze ittiche. Proverbiali sono poi i gateau bretoni salati, in pasta brisée e farciti di golosità innumerevoli, ma pure dolci, tra i quali spicca il far breton, un flan di riso, spesso arricchito con frutti (ad esempio le prugne). Mentre ordiniamo vini bianchi di Loira e Borgogna, osserviamo con stupore che gli autoctoni privilegiano la birra, il sidro o il pommeau, bevanda frizzante ottenuta dalla rifermentazione del materiale scartato durante la distillazione del Calvados.
Nella Loira è una festa bazzicare le cantine della Route de vins che si propaga da Saumur, all’ombra imperiosa delle antiche grotte trogloditiche.
Pouilly, Chinon, Saumur danno origine a nettari sublimi tanto da bere, quanto da gustare insieme alle rose -ulteriore eccellenza locale- nei sablee che imbandiscono le vetrine delle boulangerie. Il rigoglio del giardino di Francia ci proietta dritti a Lione, crocevia di due fiumi, il Rodano e la Saona, che irrigano territori generosi. A Beaune, epicentro della Borgogna rimaniamo incantati, eppure intimoriti dal pullulare di cantine. Basta percorrere una manciata di chilometri nei dintorni per capire che non potrebbe accadere altrimenti. I vigneti rivestono, tappeti smeraldini, le curve delle colline, dominate da castelli e magioni pluricentenarie.
L’aria profuma di zolle feconde, nutrimento alle uve Pinot, il mare è lontano, la terra detta legge. Il volaille (pollame), alla senape, in consomme o glassato si alterna al boeuf (manzo) grigliato, spadellato o in bourguignon (al vino rosso); tra i contorni si rivedono patate e funghi; il tagliere di formaggi diviene portata fissa; fois gras e grenouillettes (rane) in sautee mi paiono tappe cui sarebbe un crimine sottrarsi. Un discorso a parte meritano i bouchon di Lione, che rappresentano a un tempo ristoro espresso, occasione d’incontro e monumento storico, dove la cucina ruspante da brasserie si sposa a raffinata eccentricità.
Pranzare tra questi tavoli ciarlieri ci fa sentire un poco artisti, un poco rivoluzionari, un poco letterati e conclude un viaggio che vorremo non interrompere mai.