Sarà il teatro elisabettiano a ispirare peregrinaggi intercontinentali, ma quando, fuori dallo Strehler abbiamo inforcato la metropolitana sapevamo che la destinazione indicava “P.ta Venezia”, intendendo Eritrea. Locali movimentati da varia umanità galleggiano sul sabato sera e ci accompagnano fino al ristorante. Da una porticina si accede a una grotta tappezzata di pelli, arte africana e arredata con confortevoli mobili in legno. Le persone sistemate su sedie di altezze diverse esibiscono un’aria serafica, appagata, che incoraggia ad imitarle. Ci accomodiamo, ispezioniamo l’ambiente. Tovagliolo, bicchiere…e le posate? La risposta è un vassoio di injera, morbido pane, simile a crepes, a base di farine miste (00, mais e riso), acqua e lievito madre. Qualche volta nella vita è necessario sporcarsi le mani. A breve si completa la tavola con un ampio disco variopinto dai colori di cibi lontani. Infatti lenticchie rosse, verze, carote, erbette, manzo e pollo stufati di familiare conservano l’aspetto, mentre spezie segrete vi hanno indotto una favolosa, invisibile metamorfosi chiamata zighinì. Essa esplode in bocca, dopo che con tecnica sempre più magistrale le dita attingono prese dal piatto. Il couscous al burro associato al pane stempera le note decise delle pietanze maggiori, tra le quali spiccano per tenerezza, nel loro sugo bruno, le carni. L’esperienza si spinge ben oltre il gusto, assumendo una dimensione sociale. Superata la diffidenza iniziale, fisiologica di fronte a un modo tanto inusuale di consumare il pasto, si approda a un livello di condivisione profondo e significativo.
Dopo aver sorseggiato un bicchiere di tè profumato ai chiodi di garofano e cannella, rassicuro il titolare Daniel: torneremo.
