A volte cammini costeggiando la solita serie di ristorante che si professano ciascuno unico rispetto ai precedenti e decidi che ne hai avuto abbastanza: cercasi semplicità, possibilmente autentica. Con questo obiettivo in testa varco la soglia di un locale oblungo, dove clienti e cuochi indaffarati possono guardarsi negli occhi attraverso una vetrata. Nessun segreto, dunque, perché gli ingredienti sono pochi, selezionati, freschissimi e in bella mostra ad ogni stadio di trasformazione, dalla materia prima al piatto rifinito. La cucina, però non è aritmetica, la somma delle stesse componenti non dà un risultato invariabile. 5+1, ad esempio, può fare 6, 0 oppure 10 e lode, come accade con il mio antipasto. Del nido di puntarelle si avverte solo la freschezza gentile, senza tracce amare, mentre un filo di extravergine vi si insinua prendendo per mano le acciughe, il pecorino in scaglie, il pepe. Le crocchette cacio e ovo ordinate da Edo hanno il sentore famigliare delle ricette della nonna: il sugo di pomodoro dolce è un contraltare mite, eppure riconoscibile sul palato, al cuore dirompente delle polpette. Accanto alla matrice casalinga trovano posto preparazioni più articolate, dietro alle quali si percepisce uno studio calibrato degli accostamenti. Il filetto di salmone con panatura alle erbe occupa il centro di uno specchio verde, la vellutata di piselli, attorniato da succosi pomodorini confit. Lo scrigno croccante prelude alla consistenza compatta, ma al contempo tenera e suadente, del pesce. Due cipollotti arrostiti con i loro ciuffi ancora turgidi offrono un aroma di brace, quella nota ruspante, che altrimenti sarebbe mancata. Ora più che mai sembra chiaro come la gastronomia non sia una scienza esatta, perché tratta la materia e intanto gioca al tavolo -o meglio, alla tavola- delle emozioni.