Ci sarebbero molti modi di raccontare la Sardegna del sud ovest, tuttavia, in ossequio alla mia esperienza e allo spirito pantagruelico, scelgo due linee, il cibo e le persone. Desidero aprire la rassegna rivolgendo un ringraziamento speciale a Marco e Arianna, gestori di B&B Nuraximannu (“il grande nuraghe”), dove ho risieduto, per i loro consigli, senza i quali il presente itinerario sarebbe stato diverso e certo meno ricco. Torte e marmellate caserecce, pomodori dell’orto, olio autoprodotto sono le primizie con cui accompagnano chiacchierate istruttive. Di solito entravo nel salotto adibito alle colazioni con un programma in testa, per uscirne con un altro migliore. Marco mi spiega quanto elaborato sia sgrassare la capra prima di stufarla a pezzi in sugo rosso con battuto di verdure. Simile per sapidità è la carne di pecora, impiegata largamente in grigliate oppure sotto forma di ragù per condire i sappueddus (maltagliati integrali). Da essa si ricavano preparazioni essenziali come il pecorino, consumato tanto crudo in insalata o su taglieri misti, quanto cotto al forno, nonché la ricotta, ripieno per ravioli dolci (seadas al miele) e salati (con erbette e pomodoro, affini alla ricetta còrsa).
Il maiale, se non finisce in salsicce secche o morbide, ottime per completare i malloreddus (gnocchetti di grano duro), viene arrostito su lunghi spiedi e servito in cortecce di sughero (porceddu). In principio di vacanza approfondisco la conoscenza della terra. Basta guardarsi intorno. Dormo a due passi da Santadi, città dell’olio, e del vino, a giudicare dai filari che pennellano con tinte violacee il paesaggio. Uve Carignano sono alla base di nettari corposi -14° di volume in media-, quali Montessu, Rocca Rubia, Terre Brune, Barrua. Terra dunque, e pietra. La pietra che macina farina per il chivraxiu (pane 80% grano duro), la pietra del complesso nuragico a Barumini, del sito punico-romano a Nora e delle miniere sotto Carbonia.
I sardi maneggiano tali elementi da millenni, li coltivano a frutto, li scavano, li modellano in capolavori d’artigianato. La terra viene a cercarti perfino lungo i lidi cristallini di Cala Domestica e Pan di Zucchero, incastonati tra i massicci montuosi della costa occidentale, quando giovani pastori ti propongono il loro pecorino. Una mattina, però, assecondo la tentazione di virare sull’acqua e questo mi porta lontano, a fortunati incontri. Donna Lucia dispensa memorie di una vita trascorsa a maniche rimboccate e mani in pasta (profumata al finocchietto selvatico). Nella sua locanda trovo tonno ai ferri vestito di mirto e comincio una degustazione di molluschi che culminerà nella zuppa sontuosa improvvisata da chef Matteo a Sant’Antioco. A questo paesino deve il proprio nome un’intera isola dal cuore di arbusti e rovine, ma immersa nel turchino. Di fronte a una delle sue spiagge conosco Mario, homo faber, che smonta e rimonta ogni anno il chiosco dove la moglie Pinella cucina senza posa animali di ogni genere, siano essi dotati di zampe, pinne o tentacoli. Per opera sua ho occasione di assaggiare la burrida (bocconcini di pesce in salsa di noci), tipica della gastronomia autoctona. L’isola di San Pietro mi lascia il rimpianto di non aver pranzato con il rinomato tonno di Carloforte, tuttavia qui conosco due donne particolari. Denise, chiamata “Principessa della scala” per la posizione del suo negozio, ha girato il mondo in barca a vela, prima di ritirarsi in questa enclave ligure a vendere vestiti stravaganti.
Giorgia ogni decennio si trasferisce, recando con sè il proprio laboratorio: pietre, le più varie, con cui assembla gioielli unici, scaturiti da quello che ama definire “disordine creativo”.
In extremis, tra l’ultima cena e l’ultimo bagno, riesco a soddisfare il capriccio di porcini freschi sulcitani e di un goccio di mirto in riva al mare. E allora non mi resta che salutare questa regione dai molteplici volti, capace di accogliere generosamente, custodendo intatto, ad un tempo, il proprio mistero.