Quando sono le 20.30 di sabato e, rintronato dal Maestrale, ti poni la fatidica domanda “dove cenerò?”, temi di doverla presto correggere in “cenerò?”. E qui viene in soccorso il grande cuore dei sardi: “Siamo pieni, ma dopo le dieci possiamo darvi un tavolo” suonano come parole di salvezza. Alle 22.00 puntualissimi ci presentiamo all’appuntamento, leggiamo in un lampo il menù. Se oggi il vento impediva di entrare in mare, nulla vieta un tuffo gastronomico. Anzi, due. Prendo il via con una cinquina di antipasti. Seppie al vino bianco e polpo indiavolato di straordinaria freschezza si sciolgono in bocca; la cernia in umido va sfiorata, non tagliata, perché si arrenda alla forchetta; lo spada fumé profonde un gusto intenso a dispetto della consistenza impalpabile; i bocconi, saccheggiate le conchiglie, lasciano un sugo di pomodoro piccante che innesca l'”operazione scarpetta”, ad onta di ogni galateo.
La ragazza che ci serve, sempre sul pezzo, si offre di pulire di propria mano il pesce, così che il branzino arrosto mi atterra davanti indifeso, pronto al consumo. La qualità del prodotto è esaltata dalla preparazione semplice, tramite la quale ha acquisito una gradevole affumicatura. Pasciuti auguriamo la buonanotte al personale più indaffarato che mai, felici di aver mangiato cibo sardo accanto a sardi, lontani dai clamori turistici.